un film documentario di Emanuele Svezia

Nel 1968 un terremoto rade al suolo Gibellina, piccolo centro rurale della Sicilia. Dopo 12 anni di baraccopoli la popolazione può tornare nel suo nuovo paese: una insolita città-museo concepita da un progetto visionario che coinvolge le maggiori personalità dell’arte e dell’architettura contemporanea degli anni ’80. Il film racconta, con sguardo fresco e appassionato, la singolare vicenda di una comunità che, dopo una discussa ricostruzione, tenta di ricomporre la propria identità irrisolta.

Nota dell'autore


La storia di questo film inizia quando con i miei amici capitammo per caso a Gibellina, e in particolare davanti all’insegna di un pub che, con un carattere da squadra di baseball, recitava “Earthquake ‘68”. Era curioso come la tragedia fosse entrata nell’immaginario “pop” dei giovani che avevano aperto quel locale: il terremoto era uno dei tratti fondanti della loro identità, ma allo stesso tempo si era scelto di scriverlo in inglese, come se inconsciamente si fosse voluto celarne il significato agli anziani, che probabilmente non sarebbero stati contenti di sapere che un bar si chiamasse “Terremoto ‘68”. Era così o era soltanto una nostra fantasia?

Davanti a quell’insegna si accese la curiosità che ha generato questo film e ben presto avremmo scoperto che la realtà di quella città andava ben oltre le nostre fantasie.
Gibellina ha una storia profondamente articolata e controversa, che spesso ti porta a interpretarla senza mezzetinte: o bianco o nero, come è accaduto e accade tutt’ora nel dibattito accademico sul tema. Due città, la vecchia e la nuova; due cimiteri in cui dover scegliere di seppellire i propri cari; due distanziati villaggi di baraccopoli in cui la popolazione è stata divisa; due anime politiche, quella “corraiana” e quella “anti-corraiana” in cui la gente continua a riconoscersi.
D’altronde non poteva che essere così, se si pensa che siamo di fronte a una comunità che ha vissuto non uno, ma molteplici terremoti.

Il Cretto di Burri è un po’ la sintesi di tutto questo: facendo le nostre ricerche ci siamo resi conto di come la comunità e le coscienze di ogni suo singolo componente fossero divise rispetto a quest’opera e di come avessero sviluppato una sorta di tabù rispetto a quel luogo.
E’ da questa constatazione che si è sviluppata l’idea della foto di gruppo. Il tempo ha sanato molte ferite e alla lunga anche i più anziani stanno accettando e comprendendo la nuova forma del loro vecchio paese. Ma alcune fratture rimangono aperte e lo scopo del nostro progetto era proprio quello di dare un pur minimo contributo alla loro ricomposizione.

Emanuele Svezia


Alessandro con suo padre Luigi sul CRETTO DI BURRI